Santos Domínguez Ramos

 Ho visto ardere la vita



Prologo di Luis Alberto de Cuenca


Edizione bilingue (spagnolo e italiano)

Cura, epilogo e traduzione di Marcela Filippi Plaza


in copertina: particolare del grande affresco dionisiaco

della Villa dei Misteri, Pompei (Napoli)

con il contributo del fotografo argentino Jorge Blanco


Prezzo: 14 €


Collana SolMar


TALOS EDIZIONI

© Copyright 2021



Un estratto dal prologo 


Nel 1941 Agustín de Foxá, Conte di Foxá, pubblicò un breve e bellissimo libro di versi intitolato Poemas a Italia. La prima edizione costituisce oggi una rarità difficile da trovare. Ottant'anni dopo, un poeta estremegno nato a Cáceres nel 1955, Santos Domínguez Ramos, pubblica in Italia un'edizione bilingue di quattordici splendide poesie, per lo più ecfrastiche, intitolate Ho visto ardere la vita, che, in una stupenda traduzione di Marcela Filippi, rende il suo particolare tributo di ammirazione alla cultura del luogo.

Un luogo dove, tra l'altro, si è prodotta la cosiddetta «sindrome di Stendhal», che è un po' come sentirsi storditi, colpiti e sopraffatti dinanzi a tanto accumulo di bellezza. Com'è accaduto all'autore de La Certosa di Parma quando stava visitando, nel 1817, la Basilica di Santa Croce a Firenze (ma gli sarebbe potuto accadere dinanzi a qualsiasi altro monumento italiano, poiché la bellezza non manca nel paese di Dante e di Petrarca, di D'Annunzio e di Marinetti).


Luis Alberto Cuenca 






Un estratto dal poema


MATERIALE INFIAMMABILE

(visione del Caravaggio)



Qualcuno sorregge un faro di luce calda e rossa

sui figuranti. Sullo sfondo fluttua una tela

e pende il velluto sopra il sangue freddo

che accende il panno di lino bianco incandescente.

Con disprezzo per le statue e attenzione per gli uomini,

nelle cripte segrete ho visto ardere la vita

il bronzo, il filtro, il palpito

venereo dei falli

e un enigma di fonti e frutti incisi.

Né invenzione né decoro. Nelle ore blu

ho frequentato le acide taverne del desiderio,

il lupanare infetto dove la carne afferma

la sua furia inoculata nelle bocche fruttate,

nelle lascive uve, negli inguini plebei.

La dura luce diventa fredda nel cielo di stagno

ed è un teatro di ombre, è la fine del palpito

che vacilla nelle lampade di una camera oscura

dove una tenda doma la sua geometria sferzante.

Perché nasce dal tempo e torna alla certezza

indigente di un corpo assoggettato in un lampo

e ci sono gesti contenuti, amari incipienti

e smorfie sorprese dal dolore mendico.

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